Verso Sud


Giovedi 20 Giugno 2019, ultime ore di primavera, tra poco sarà estate. Fa caldo anche se è quasi mezzanotte. Sto aspettando Alberto, eccolo, ci sono anche Andrea e Marisa: “Ciao, come va?”. Ci aspetta un lungo viaggio in auto fino in Calabria. Sabato saremo a Reggio con migliaia di altri lavoratori a dire che no, che così proprio non va. Vogliamo un futuro solido e solidale, lavoriamo per questo, Nord e Sud uniti per difendere diritti, per proporre soluzioni, per pretendere da questo governo risposte alla fame di lavoro, di legalità del nostro paese, che qualcuno vorrebbe chiuso su sé stesso a nutrirsi di paura e di odio.

Ci saranno anche Cisl e Uil, insieme, in nome di un’unità sindacale complicata, tutta da ricostruire, un lavoro certo difficile ma necessario, oggetto di confronto continuo al nostro interno ma mai abbandonato, sempre perseguito con impegno, cercando di far valere i nostri temi nel coinvolgimento delle altre confederazioni.

Domenica ci sarà il gemellaggio tra la Camera del Lavoro di Torino e quella della Piana di Gioia Tauro. Due realtà guidate da due donne: Enrica Valfrè e Celeste Logiacco. Prima visiteremo la tendopoli di San Ferdinando, sorta dopo l’abbattimento delle baracche del ghetto. Operazione a cui avrebbe dovuto seguire un programma di accoglienza dei lavoratori migranti: nei moduli abitativi, vicino ai centri abitati per non avere più ghetti, pensati ma mai costruiti; negli alloggi di edilizia popolare, quelli sì costruiti apposta, a Rosarno, con fondi europei, dei quali il sindaco vuole disporre liberamente. “Prima gli Italiani “e non importa se la Flai avesse proposto di metterne a disposizione la metà per  cittadini rosarnesi in condizioni di difficoltà: comunque “Prima gli Italiani”.

Siamo in autostrada da pochi chilometri ed è già cantiere, sarà così fino a Genova e poi giù verso Roma e ancora fino a Napoli e oltre, però è notte e c’è pochissimo traffico. Ci diamo il cambio alla guida, prima Andrea, poi io. Albeggia che abbiamo appena passato Roma, il cielo è oro pallido, screziato appena di nuvole rosa. Corriamo verso sud, nel tardo pomeriggio abbiamo appuntamento con Antonio a Polistena. Passiamo l’uscita di Maratea poi entriamo in Calabria. Tutt’intorno colline tondeggianti, ricoperte di verde rigoglioso, con ampie spaccature da cui biancheggia la roccia viva, si alternano ad altre che sembrano disegnate dalla mano precisa di un architetto.

Le geometrie marroni dei campi arati confinano con gli ulivi secolari schierati in ordine, come scolaresche d’altri tempi, il verde si pavoneggia in tutte le sue tonalità, poi, all’improvviso, appare il primo sfregio.

Avrà almeno cinque piani, le finestre come occhiaie vuote, il tetto sgretolato, la vegetazione ne avvolge la base fino ai primi balconi. Che ci fa lì? Chi lo ha messo in mezzo a questa campagna ad alterarne l’equilibrio, perché vedendolo sento questo disagio? Ne incontreremo altri, tanti, ovunque. Scheletri di edifici, capannoni, case, segni tangibili di una terra che grida. Cominciamo a parlarne e arrivano quelle parole inquietanti, che mettono paura: ecomostri, abusivismo, ‘ndrine, ‘ndrangheta.

Le conosciamo bene anche noi quelle parole, la provincia di Torino è piena di comuni che sono stati commissariati per mafia, il Canavese, infestato dalle infiltrazioni proprio della ‘ndrangheta, dalle collusioni della politica locale, dalla corruzione e poi Nichelino ed altri ancora.


Cambiare per restare, restare per cambiare

 

 

Usciamo dall’autostrada, abbiamo tempo per mangiare qualcosa, siamo vicini a Lamezia, a circa un’oretta da Polistena. Andiamo verso il mare, lungo la strada si susseguono stabilimenti balneari chiusi, alcuni in evidente stato di abbandono. Poca gente in spiaggia, qualche pescatore, ma qui siamo lontani dai luoghi più rinomati: Tropea, Diamante, Capo Rizzuto. Entriamo a Gizzeria, un nome che evoca scorrerie di pirati saraceni. Il mare ci dice che un’altra storia sarebbe possibile, che la speranza non può e non deve morire, che di un azzurro così ci si potrebbe campare, tutti, bene. Ed io, con la mia testa da sabaudo di prima generazione mi chiedo: “e allora perché? Perché no?”, qualcosa me lo farà capire Antonio tra poco, a Polistena . Arriviamo in paese in anticipo, qui Alberto ci ha fatto un campo della legalità, proprio alla cooperativa Valle del Marro di Libera Terra, con Antonio. Lo chiama al telefono:

“Ciao siamo già qui, al palazzo requisito”.

” Sto qua pure io, mo’ scendo.” Ed eccolo Antonio Napoli, una faccia dorica, con gli occhi chiari, che da qui ci sono passati tutti i popoli del conosciuto mondo, dai Greci ai Bizantini, dagli Arabi ai Normanni. Ognuno ha lasciato una pietra, un mattone, a costruire le fondamenta di questa terra, di questa gente, per ultimi sono arrivati i Piemontesi e con loro l’Italia. Allora tutto dovette cambiare perché nulla cambiasse davvero. Ma questa è un’altra storia o forse no, forse è solo l’inizio di questa, fatta di violenza, paura, omertà, sopraffazione ma anche di speranza, lotta, resistenza e parole, voci, a coprire il silenzio assordante di decenni e decenni di assenza dello Stato. Antonio ci precede con la sua Panda, in pochi minuti arriviamo alla cooperativa.

Qui si svolgono i campi estivi della legalità, una settimana in cui i partecipanti aiutano nei lavori agricoli, qualche ora al mattino e nel pomeriggio si fa formazione antimafia. Si incontrano giudici, giornalisti, imprenditori, che vivono sotto scorta, perché la ‘ndrangheta vuole il silenzio, non sopporta che si alzi la voce, che si alzi la testa. Ognuno di loro porta la propria testimonianza, mette a disposizione sé stesso in questa lotta immane contro il buio.

La cooperativa del Marro ha avuto in assegnazione alcuni terreni ed un edificio in pieno centro a Polistena. Tutti beni requisiti a famiglie ‘ndranghetiste, ai sensi della legge 109 del 96, sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, ottenuta grazie all’impegno di Libera, che raccolse oltre un milione di firme, riprendendo la proposta di legge di Pio La Torre, politico comunista siciliano, ucciso dalla mafia nel 1982 insieme a Rosario Di Salvo.

Antonio ha un modo pacato di parlare. Sorride spesso, con un sorriso quasi pudico, soppesando le parole in risposta alle nostre domande, delicatamente, come a proteggerci dalla durezza dei concetti che esprime. Ci racconta di una società tipicamente rurale, in cui il consenso alla mafia era granitico, perché l’organizzazione dava risposte ai bisogni, dava lavoro, sostegno economico. La sua forza stava nella struttura familiaristica, nella coesione dei suoi membri, nell’unione tra le cosche sancita anche attraverso i matrimoni, nell’omertà. Una mentalità totalmente pervasiva e trasversale, intatta fino all’entrata in vigore della 109. Con questa legge la confisca ricadeva direttamente sul territorio, creava una rete di attività economiche, creava lavoro onesto, pulito. Ha creato speranza. A poco a poco, si è aperta una crepa nel muro del pensiero comune, che vedeva nel mafioso un beniamino e non un oppressore, uno sfruttatore. Nonostante l’opposizione violenta delle cosche, nonostante sindaci collusi che ostacolavano lo svolgersi delle regolari procedure di assegnazione, nonostante il timore e la diffidenza della gente comune.

Da circa cinque anni si è incrinata l’unità stessa delle famiglie mafiose, con alcune giovani madri che si sono dissociate, rifiutando per i propri bambini il destino della ‘ndrina, sopportando di vivere sotto protezione, in luoghi segreti e lontani, a volte con identità cambiate. La lotta è proprio questa: disarticolare le strutture mafiose, fare rete: chiesa, sindacato, associazioni, magistrati, giornalisti…

“Quella che era utopia sta diventando realtà.”

Sorride ancora Antonio quando gli chiediamo:”Ma non avete paura?” e in quel sorriso c’è già la risposta. ”Si può avere paura, è normale, è umano, si può essere spaventati ma non ci si può fermare, non si deve, perché abbiamo ragione noi. Davanti alla mafia si può subire, fuggire o restare e lottare. Perché qui c’è gente che spara ma c’è anche gente che spera”.

Antonio era un giovane che insieme ad altri ha scelto di restare, fondando la cooperativa del Marro, proponendosi per usare quei beni confiscati alle famiglie mafiose. Per restituirli alla gente di qui, sotto forma di lavoro, di dignità, di speranza, appunto.

Così il palazzo, tre piani di ostentazione del potere dei Versace, oggi è un ostello per giovani, un centro di aggregazione, una piccola biblioteca. Ospita un ambulatorio di Emergency sorto principalmente per i lavoratori migranti, che qui sono tanti, a raccogliere soprattutto gli agrumi, ma anche per i calabresi.

Prima i malati e non importa se sono italiani o stranieri, prima i malati.

Torniamo al palazzo, là incontreremo don Pino De Masi, referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro, impegnato a guidare, confortare e stimolare una comunità smarrita tra la paura del presente e la voglia di un futuro migliore, più giusto, più equo.

Arriva il bus con Enrica e la delegazione della Cgil di Torino, entriamo, don Pino è già in sala riunioni. Ci racconta di quanto sia importante fare leva sui giovani, strapparli dagli artigli della ‘ndrangheta, informarli, formarli, educarli alla legalità.

I giovani possono salvare questa terra e salvarsi, riprendendosi campi, coltivazioni, spazi: recuperando il coraggio che qualcuno ha perduto, prendere esempio per diventare, essi stessi, esempio. I giovani possono avere la forza di resistere ai danneggiamenti, alle pressioni, alle minacce, alla paura e non andarsene, come Antonio, come gli altri della cooperativa. Prima di salutarci, Antonio ci mostra quello che era il salone delle feste, ora uno spazio comune per i ragazzi che frequentano il centro. Un ambiente enorme, dalla vetrata che copre la parete intera si accede al terrazzo, affacciato sulla piazza principale e dietro, il tramonto sul mare. I Versace dimostravano così il loro potere, in faccia al paese, in faccia al mare.

A cena capito seduto proprio di fronte a don Pino, siamo più rilassati, è un momento conviviale certo, ma lui è un prete che combatte la mafia ed io un sindacalista che cerca di fare del suo meglio. In quel momento il meglio da fare è ascoltare don Pino, imparare per poi diffondere.

 


Il futuro al lavoro, Reggio di Calabria

 

 

Mi sveglio presto, una bella doccia, colazione e poi tutti insieme verso il punto di concentramento. Prendo la sacca delle bandiere, l’altra la porta Alberto. Si sta bene tra compagni. Non stiamo partecipando al solito rituale, come vogliono far credere quelli che ci deridono, che cercano di delegittimarci e in realtà temono, la nostra tenacia, le nostre ragioni, la nostra umanità. Non è mai il solito rituale. Siamo consapevoli che dobbiamo mobilitarci per dare una scossa a chi ci governa, perché non ci stiamo a vedere questo paese arretrare economicamente, senza investimenti a lungo termine, senza una vera politica industriale, senza una speranza; non ci stiamo ad assistere alla crescita dell’erba velenosa dell’odio che infesta i giornali, i media, il web, non ci rassegniamo all’idea dell’illegalità diffusa e protetta da frange di istituzioni colluse e corrotte. Noi siamo il mondo del lavoro dignitoso che chiede dignità, siamo il mondo del lavoro legale che pretende legalità, siamo il mondo del lavoro solidale che vuole solidarietà. Nord e Sud insieme, nel solco della Costituzione, senza alchimie di autonomie e differenziazioni, che mascherano spettri di gabbie salariali e iniquità divise per latitudini. 

Abbiamo idee, progetti, proposte, alcune le abbiamo, depositate alla Camera dei Deputati già da tempo, altre le abbiamo messe in una piattaforma rivendicativa unitaria, vogliamo che se ne discuta, vogliamo parlarne, vogliamo essere ascoltati.

Siamo in tanti, tante bandiere, cappellini, fazzoletti rossi, verdi, blu. Percorriamo tutto corso Garibaldi portandoci verso il punto di partenza, passiamo in piazza della Repubblica, davanti al palco su cui si alterneranno nei loro interventi i segretari generali delle confederazioni. Fa caldo, camminiamo velocemente per raggiungere la nostra posizione, dalle traverse alla nostra sinistra ogni tanto compare un po’ d’azzurro: il mare ci saluta e non sembra ostile.  Penso ai moti di Reggio, sono passati circa cinquant’anni ma il fascismo è sempre dietro l’angolo ad aspettare di sorprenderci mentre ripigliamo fiato, e in questi mesi fa capolino, strafottente, impunito. Il corteo è già robusto, non siamo ancora partiti ed occupa metà del corso. Apriamo lo striscione, inastiamo le bandiere, ecco si parte. Da ora in poi è un susseguirsi di cori, slogan e canti. Ci siamo, siamo tanti, siamo qui e ci saremo ancora, come sempre, finché sarà necessario.  Piazza della Repubblica è una piastra rovente, parla Furlan, poi  Barbagallo, poi è la volta di Landini. Il suo accento emiliano rinfresca la piazza, dietro al palco le statue della cattedrale ascoltano attente, persino S.Pietro sembra annuire, convinto.

La manifestazione si conclude: è stata partecipata, convinta, pacifica. Ha detto bene Maurizio: questo è un punto di partenza, mica di arrivo. Ho fame, ho caldo, ho sete ma sono contento di essere qua.

Domani saremo a Gioia Tauro per il gemellaggio e alla tendopoli di San Ferdinando ma oggi pomeriggio siamo liberi, decidiamo di pranzare e andare vedere il mare, là dove idealmente finisce la terraferma dell’italica penisola: Scilla.

 


Gli invisibili della Piana

 

 

L’appuntamento è al centro commerciale all’uscita di Gioia Tauro. Da buoni Torinesi, siamo in anticipo, prendiamo un caffè mentre aspettiamo Celeste. Arriva, i saluti di rito e andiamo verso San Ferdinando. Entriamo nella zona industriale del “retro-porto”, le strade sono fiancheggiate, senza soluzione di continuità, dagli oleandri, rossi, bianchi, lilla. Una schiera di piante fiorite che si sono riprodotte selvagge, figlie dei primi oleandri ornamentali piantati all’epoca della costruzione. Perché qua i capannoni industriali che avrebbero dovuto ospitare il tessuto vitale del porto più moderno d’Europa, pari e forse migliore di quello di Rotterdam, quelle strutture industriali che trasformano le materie prime appena sbarcate, questi capannoni qua… sono vuoti. La zona è un paesaggio da “giorno dopo”. Qua l’odore di mafia si sente, è denso, nauseante.

Più di vent’anni fa, nella piana doveva sorgere un polo siderurgico enorme e per fargli spazio sono stati distrutti ettari di agrumeti, che erano, come oggi, la spina dorsale dell’economia di queste zone. Poi hanno costruito il porto di Gioia Tauro, ultramoderno, grande, per far fronte alle esigenze commerciali delle merci provenienti da Oriente e dall’Africa.

Sei tronconi ferroviari, in grado di caricare e spedire tir interi verso le strade di tutta Europa, ponti gru di ultima generazione, capaci di smaltire velocemente le operazioni di scarico e far ripartire le navi in tempi brevi. Il porto però è isolato, scollegato dal resto d’Europa, utilizzato solo per il traffico nazionale, molte volte limitato al solo meridione. Non abbiamo una rete ferroviaria che lo colleghi degnamente al resto del paese e del continente.

L’autostrada corre sul tratto tirrenico, perennemente in costruzione, anche se i progressi oggi sono evidenti, ed il tratto ionico rimane pressoché irraggiungibile. Così il retro porto non è mai stato appetibile per le aziende che, come invece succede a Rotterdam, sono interessate ad iniziare la trasformazione il prima possibile. Così ci sono navi che escono dallo stretto di Gibilterra e raggiungono Anversa o Rotterdam, scaricano lì le merci che poi, su gomma o ferrovia, raggiungono la loro destinazione europea. Altre scaricano a Trieste o Genova.

In questo contesto era sorto il ghetto di S.Ferdinando, abbattuto a marzo, con le ruspe e i reparti antisommossa: ”dalle parole ai fatti” tweettava il ministro vice-premier Salvini. Quel ghetto era una vergogna, è vero, come lo è ancora quello di Rosarno, come quelli in Puglia, in Campania, come ogni ghetto nel mondo.

Ma lo sgombero avvenne senza programmi di ricollocazione sufficienti, senza preoccuparsi di quelli, molti, che con le loro poche cose già si avviavano ad ingrossare la popolazione di Rosarno o si collocavano in qualche capannone in disuso a poche decine di metri. Le macerie stanno ancora là, divise in mucchi di teli, lamiere, cartoni, rimasti esattamente dove prima sorgeva la baracca che ne era composta, a disposizione di chi arriverà con la stagione della raccolta degli agrumi. Adesso le attività sono praticamente ferme e in tanti si sono trasferiti in Puglia per i pomodori o in Piemonte per le pesche. Perché questi lavoratori sono migranti dall’Africa e continuano a migrare sui nostri territori, inseguendo il lavoro di raccolta. La Prefettura ha messo a disposizione delle tende, quelle blu che abbiamo anche a Saluzzo ma in pochi hanno accettato di insediarsi. Oggi non sono più di trecento.

Parcheggiamo nel piazzale di fronte all’entrata della tendopoli, dove staziona un’auto della polizia, una camionetta della guardia di finanza vigila invece l’accesso ad una traversa. Ci consigliano di non inoltrarci nel campo, in fondo quella è casa loro, ci dicono, qualcuno potrebbe infastidirsi. Entriamo e restiamo nello spazio antistante alle prime tende, ad ascoltare il frate francescano e il responsabile della Caritas che gestisce il campo. Ci raccontano delle mille difficoltà sopraggiunte con il decreto sicurezza, di quanto sia più complicato richiedere una carta di identità indispensabile per avere un regolare contratto di lavoro. Ci dicono che i campi sono lontani da qui, che i lavoratori sono costretti a spostarsi, alcuni in bici, tanti con i furgoni dei caporali, non idonei, adattati a portare fino a dodici, quindici persone, stipate nel cassone, senza sicurezza come bestie. Li ho visti nelle campagne foggiane, con Alberto, quando partecipammo alle Brigate del Lavoro. Li ho rivisti alla tv, schiantati in quelle stesse campagne l’estate scorsa, con il loro carico di vite spezzate.

Arriva un ragazzo con le treccine, sarà alto una spanna più di me, è arrabbiato, sembra parlare più a sé stesso che a noi. Alterna Inglese e Francese, dice che ci sono delle leggi internazionali, che non son animali, che non è possibile vivere così. Eppure le condizioni nella tendopoli sono decisamente migliori di quelli che vivono al ghetto, ma qui sei isolato da tutto, sei un INVISIBILE e chi non si vede non ha diritti, non esiste.

Quando prova ad alzare la testa, come nel 2010 a Rosarno, la reazione è dura. Qui la ‘ndrangheta ha sempre gestito la raccolta, governando il business dei fondi europei, lucrando sulle false disoccupazioni agricole, sfruttando manodopera irregolare. In quegli anni la Comunità europea ha cambiato il criterio dell’assegnazione dei fondi, erogati in base alla superficie dei terreni coltivati e non più sui chili raccolti, quando i camion pieni venivano pesati fino a dieci volte. I migranti quindi non servivano più: era più conveniente lasciare i frutti sugli alberi, risparmiando sulla raccolta. Perché alle cosche non interessa l’economia del territorio, né il futuro della gente.

Come ora, il ministro degli Interni era un esponente della Lega, allora era Maroni, disse che i disordini erano il risultato di una politica troppo “morbida” verso i migranti. Quegli stessi migranti che vennero braccati e aggrediti da squadre di picchiatori, organizzati dalla cosca dei Pesce e poi molti furono “trasferiti” nei centri di espulsione.

Lasciamo il campo un po’ delusi di non aver potuto parlare con quei ragazzi, esprimere loro la nostra solidarietà, dire che stiamo dalla loro parte, che sono nostri compagni.

A Gioia Tauro, nella sede della Cgil, ci illustrano il porto nei dettagli, poi interviene un giovane bracciante, parla un italiano ancora incerto, ci dice che collabora in un progetto della Flai, fa il delegato, fa il sindacalista. Sono quasi le quattro del pomeriggio, per noi è ora di ripartire, facciamo la foto ricordo con i compagni calabresi.

Nord e Sud uniti, in un sorriso.

 

Torino, 08 agosto 2019